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2100: sviluppo sostenibile o ritorno al Medioevo? - Antonio Ferreri, IIS Gaetano De Sanctis - Roma

“Vota sì per dire no al nucleare”. Ormai è questo lo slogan degli oppositori alla moderna forma di energia. Un’affermazione purtroppo derivante dal gap culturale che caratterizza il nostro Paese. Infatti, non c’è peggior strumento di disinformazione dell’ideologizzare argomenti di portata così rilevante. Riguardo l’ambito ecologico-ambientale, purtroppo, nel corso della storia ci saranno sempre pensieri discordanti che tenteranno di prevaricare l’uno sull’altro. Basti pensare che molti rispettabili studiosi credano che lo sviluppo e il progresso odierno abbiano raggiunto un livello tale da permettere l’allontanamento dalle necessità naturali. Ciò è frutto di un’analisi assolutamente superficiale che richiede uno studio e un interesse di base, attraverso i quali è possibile constatare che la tecnologia e la nuova coscienza economica e ambientalista hanno raggiunto livelli impensabili, ma nonostante ciò l’autosufficienza è irraggiungibile. Pertanto è un’utopia aspirare ad un ideale di autonomia dalla natura. Questo tentativo comunque è già riscontrabile negli effetti prodotti sulla terra. Quindi proprio gli squilibri nei consumi energetici e nel benessere  sociale sono dettati dalla sottovalutazione della nostra dipendenza dal mondo naturale. Certamente va sottolineato come tale consumo sia distribuito eterogeneamente creando disparità e squilibri anche nel contesto sociale. Non per niente un terzo della popolazione mondiale non dispone di elettricità, ricorrendo esclusivamente all’utilizzo delle biomasse.

Focalizzando l’ottica principalmente sul nostro Paese, va riconosciuto che la dipendenza energetica dall’estero è un problema che sovrasta il tentativo di autonomia dalla natura. Infatti prima di raggiungere un livello di sviluppo tale da permettere questa utopica autosufficienza è lecito che l’Italia diventi indipendente in materia di energia. Se si analizza solamente l’energia elettrica, si percepisce a chiare lettere la realtà dei dati reali: ben 45.000 GWh vengono importati dall’estero e addirittura il 13% del consumo totale di elettricità è dovuto ai reattori nucleari oltrealpini. Ed è giunti a questo punto che sorge spontanea la domanda: perché non istallare reattori e centrali dell’atomo in Italia?

Riprendendo le premesse iniziali si può condurre uno studio approfondito in materia. Nel caso italiano sorgerebbero varie implicazioni dovute all’assenza di questa forma di energia convenzionale. Infatti se confermeranno gli “stress test”, Gran Bretagna e Francia saranno sottoposte a verifiche per testare l’efficienza dei reattori in caso di catastrofi naturali e pertanto gli impianti di vecchia data rischierebbero l’abbattimento o la chiusura. Ciò comporterebbe una diminuzione del 10% delle importazioni energetiche in Italia e quindi un aumento dei costi dovuti alla sola presenza di impianti a combustibile fossile. Di certo l’inquinamento aumenterebbe e in più le risorse pro-capite scenderanno a livelli ancora più preoccupanti degli attuali. Proprio per questo motivo risulta errato rifiutare a prescindere la reintroduzione delle centrali nucleari in Italia. Queste prese di posizione derivano da interessi personali e ideologie politiche indirizzate sempre al fabbisogno di ciascun azienda o partito. I vantaggi che se ne trarrebbero sono molteplici, il principale sicuramente è la disponibilità di maggior energia a bassi costi. Però sotto un altro punto di vista va affermato che la riattivazione delle centrali sarebbe un progetto a lunga scadenza e quindi investire adesso per avere risultati “domani” è piuttosto rischioso, soprattutto se le risorse di uranio come previsto si esauriranno tra settant’anni. Inoltre c’è da aggiungere che i nuovi reattori di generazione avanzata, 3 più, azionati ad acqua pressurizzata, in caso di incidenti determinerebbero una fuoriuscita di isotopi radioattivi quattro volte superiore ai reattori “tradizionali”. Infine riassumendo, investire su reattori utilizzabili nel 2020 quando nel 2040 usciranno gli stessi di quarta generazione, risulterebbe controproducente.

Nonostante le riflessioni attuabili sull’argomento, altrettanto non condivisibile si configura lo sfruttamento circoscritto alle sole fonti di energia alternative. Tali risorse, a tutt’oggi, sono alla base dello sviluppo sostenibile che è identificabile, appunto, con lo sfruttamento delle fonti alternative in modo tale da lasciare spazio e risorse a coloro che ci succederanno così come hanno fatto i nostri predecessori. Sicuramente disponibilità è una condizione necessaria, e non sufficiente a realizzare lo sviluppo. Oggi gli spunti per contrastare l’indebolimento dei piani ecologici, sono diversi ed un esempio significativo è esplicato dal quotidiano La Repubblica che in un articolo del dicembre 2009 delineò i tratti tipici delle Transition Towns. In queste città o villaggi di ultima generazione, si sta cercando di mobilitarsi, solo a livello locale, per adempiere ai propri doveri morali di abitante del mondo naturale e quindi attraverso il risparmio dei consumi e limitando le componenti inquinanti. In teoria questo era l’obiettivo, dell’intera Europa nel 2020 dopo il protocollo di Kyoto 20-20-20: ovvero la diminuzione del 20% delle emissioni di gas serra, l’aumento del 20% dell’efficienza energetica e il raggiungimento del 20% delle fonti di energia alternativa.

Comunque consultando in maniera dettagliata siti internet come la Terna s.p.a. e Museo Energia si può ben capire come sia utopico realizzare attività generate da sola energia alternativa. Infatti le risorse rinnovabili anche se il loro inquinamento è trascurabile e la loro capacità rigenerante elevata, comporterebbero costi non sostenibili. In più la diminuzione dello sfruttamento di combustibili fossili si oppone ad altri fattori: come, ad esempio, la necessità di occupare vaste zone per impiantare strutture fotovoltaiche o centrali mareomotrici. Per non parlare della loro efficienza produttiva intermittente: infatti solo al sud-Italia si potrebbe sfruttare energia elettrica per prestazioni di 1500 ore su 8760 annue e ciò dovuto non solo all’impossibilità di stoccaggio delle fonti rinnovabili ma soprattutto alla bassa capacità produttiva energetica. Nonostante tali inconvenienti l’aumento dell’offerta di posti di lavoro attinente a questo ambito è salita vertiginosamente, sia per la necessità di disporre di ingegneri competenti sia per realizzare il progetto di sviluppo sostenibile. Infatti l’obiettivo prefissato è evitare ripercussioni sull’ambiente che ricordino l’estate del 2003. Come precisa Cianciullo su La Repubblica, quell’estate fu caratterizzata da un aumento cospicuo di decessi dovuti all’eccessiva temperatura e proprio questo è il rischio che si corre nel 2100 se i gas serra continueranno ad estendere le proprie propaggini. Ovviamente non è uno scenario già delineato e quindi abbiamo ancora tempo per intervenire attivamente contro emissioni e consumo. Poiché si è soliti affermare che la prevenzione è preferibile alla cura, allora dobbiamo immediatamente impegnarci ed ottenere il “deflusso” dell’inquinamento per vivere nel migliore dei modi in un futuro più “verde”.

                                                                                                               


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